Terzo settore, cosa dice il Consiglio di Stato sulle attività diverse
12 Giugno 2025
Un’analisi di una recente pronuncia chiarisce quali sono i criteri e i limiti per qualificare tali attività, evidenziando che la distinzione rispetto a quelle di interesse generale risiede nel contenuto e non nella forma o nello scopo con cui vengono svolte.
Articolo tratto da Cantiere Terzo settore, di Giammaria Gotti – Scuola Superiore Sant’Anna, Centro di ricerca Maria Eletta Martini
Una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. III, sentenza n. 6211/2024), ha dato importanti indicazioni interpretative in tema di attività diverse ex art. 6 CTS e relativa distinzione con le attività di interesse generale di cui all’art. 5 CTS. Un tema di particolare interesse per gli interpreti ma specialmente per gli operatori del Terzo settore, spesso chiamati ad affrontare dubbi e incertezze sul tema. Ecco un’analisi del suo contenuto.
Il caso
Il caso di specie aveva ad oggetto una gara pubblica per un accordo quadro, ai sensi dell’art. 54 del vecchio Codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016), per il servizio di noleggio di automediche con autista e infermiere. La seconda classificata impugnava l’aggiudicazione a favore di un’ATI composta da organizzazioni di volontariato, contestando che questa avesse dichiarato un utile da reinvestire, qualificando pertanto il servizio come attività diversa ai sensi dell’art. 6 del codice del Terzo settore (Cts). Secondo la ricorrente, solo le attività gratuite o svolte a rimborso spese possono rientrare tra quelle di interesse generale (art. 5 Cts), mentre quelle che generano utili – come nel caso di specie – sono da considerarsi attività diverse, esercitabili solo se previste nello statuto. Sempre secondo la ricorrente, la differenza tra le attività di interesse generale (art. 5) e accessorie (art. 6) non è di tipo qualitativo, ovvero riferita all’oggetto dell’attività stessa, ma attiene alle modalità con le quali sono esercitate. Di conseguenza, l’ATI non avrebbe avuto i requisiti per partecipare alla gara, poiché il servizio offerto non rientrava tra le attività legittimamente esercitabili. Sia il giudice di prime cure che il Consiglio di Stato, in sede di appello, hanno respinto questa interpretazione, basata su un’erronea ricostruzione del quadro normativo di riferimento, che è utile di seguire richiamare brevemente.
La distinzione tra “attività di interesse generale” e “attività diverse” nel codice del Terzo settore
Come noto, l’art. 5 Cts prevede che gli enti del Terzo settore (Ets) esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l’esercizio, le ventisei attività elencate al medesimo art. 5. L’art. 6 Cts, poi, ammette la possibilità che gli Ets esercitino “attività diverse da quelle di cui all’articolo 5, a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale”, secondo criteri e limiti definiti con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 19 maggio 2021, n. 107. Infine, con specifico riferimento alle organizzazioni di volontariato (Odv), l’art. 33, comma 3, Cts prevede che per l’attività di interesse generale prestata le organizzazioni di volontariato possono ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, “salvo che tale attività [quella di interesse generale] sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6”.
La posizione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato si impegna dunque in una ricostruzione sistematica della disciplina citata, tracciando con precisione i confini tra attività di interesse generale e attività diverse. Ricorda anzitutto che la tipizzazione normativa degli Ets operata dal legislatore si è svolta su due fronti, connessi funzionalmente ma oggettivamente distinti: da un lato il contenuto delle attività di “interesse generale”, tratteggiato essenzialmente in relazione agli interessi (di carattere sociale, sanitario, umanitario e culturale) che sono dirette a soddisfare, dall’altro la forma e gli scopi del loro svolgimento, i quali devono essere caratterizzati in senso non lucrativo. A tal proposito, vale la pena aggiungere che – oltre all’assenza di scopo di lucro segnalata dal Consiglio di Stato – è il perseguimento da parte degli Ets di “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” a costituire il tratto caratterizzante degli Ets stessi. È questo cioè l’elemento distintivo che giustifica da un punto di vista costituzionale il loro trattamento differenziato rispetto ad altre formazioni sociali. Le finalità individuate dal Cts sono infatti una indicazione sintetica della causa per la quale un ente del Terzo settore è costituito. L’assenza di scopo di lucro – presidiata dall’art. 8 Cts – è elemento che si accompagna e in un certo senso agevola il perseguimento delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.
Già da questa semplice constatazione, si può dedurre che l’art. 6 Cts, quando legittima gli Ets all’esercizio di “attività diverse da quelle di cui all’articolo 5”, fa riferimento ad attività che, per i loro contenuti, non sono assimilabili alle tipologie di cui all’elenco recato dall’art. 5. L’art. 6 infatti, nel fare riferimento all’“oggetto” delle “attività diverse”, pone l’accento sul contenuto dell’attività, con la conseguenza che la “diversità” non può che emergere dal confronto con l’elenco di cui all’art. 5, comma 1. L’assenza di scopo di lucro di cui all’art. 4 Cts, non richiamata dall’art. 6 Cts, non costituisce invece un connotato essenziale delle “attività diverse” – a differenza di quanto stabilisce l’art. 5, comma 1, per quelle di “interesse generale” – purché siano svolte nel rispetto dei criteri e dei limiti dettati dal predetto dm. Da tali considerazioni ricostruttive discende che, laddove l’art. 6 consente agli Ets di svolgere “attività diverse da quelle di cui all’articolo 5”, si basa su un criterio di “diversità” oggettiva e non teleologica, quale emerge appunto dal raffronto con il catalogo di cui all’art. 5, comma 1: con la conseguenza che è rispetto a tale attività, oggettivamente connotata, che deve ricorrere la condizione che “l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano”.
Tale conclusione trova conforto nel disposto del già richiamato art. 33, comma 3, in materia di disciplina delle organizzazioni di volontariato. La disposizione infatti, nel prevedere la possibilità per le organizzazioni di volontariato di svolgere le attività “di interesse generale” di cui all’art. 5, comma 1, secondo modalità lucrative, ovvero ricavandone un utile, purché sia svolta “quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6”, non afferma che essa debba considerarsi come una attività “diversa” (sì da dover essere prevista in quanto tale nello statuto o nell’atto costitutivo), ma prescrive solo che sia svolta nel rispetto dei limiti e dei criteri che ne assicurano il carattere “secondario e strumentale”.
Significativo appare che il Consiglio di Stato, ad ulteriore supporto delle conclusioni cui perviene, richiami una circolare ministeriale, la n. 20 del 27 dicembre 2018, avente ad oggetto “Codice del Terzo settore. Adeguamenti statutari”. In essa il Ministero spiegava che “l’esercizio di attività diverse rispetto a quelle di interesse generale ricomprese nell’elenco di cui all’articolo 5 è facoltativo; tuttavia, qualora l’ente intenda esercitarlo, esso è subordinato, ai sensi dell’articolo 6 del codice, a due condizioni: 1) che esse siano secondarie e strumentali rispetto a quelle di interesse generale (secondarietà e strumentalità dovranno essere valutate secondo i criteri e limiti che saranno definiti con decreto interministeriale, avente natura regolamentare); 2) che sia consentito (e quindi specificamente previsto) dall’atto costitutivo o dallo statuto”. Si evince da essa, infatti, che le “attività diverse” emergono per differenza “rispetto a quelle di interesse generale ricomprese nell’elenco di cui all’articolo 5” e che sono le stesse, così oggettivamente individuate, a dover costituire oggetto di annotazione nell’atto costitutivo o nello statuto. Il richiamo alla circolare ministeriale testimonia quanto l’attività interpretativa del Ministero sia stata preziosa in questi anni nel fornire – prima ancora della giurisprudenza – supporto e delucidazioni agli operatori sulle nuove disposizioni normative.
Pertanto, il Consiglio di Stato conclude affermando che le attività di “interesse generale” di cui all’art. 5, comma 1, nel caso in cui siano svolte con lo scopo di lucro (ovvero attraverso l’ottenimento di un utile), non diventano per ciò solo “diverse” né richiedono, a differenza di quelle anche “oggettivamente” diverse di cui all’art. 6, una specifica iscrizione nell’atto costitutivo o nello statuto, ma possono essere svolte come attività “secondarie e strumentali”, purché nel rispetto dei “criteri e dei limiti” fissati dal citato dm.
In conclusione
La pronuncia dimostra come i giudici amministrativi siano sempre più impegnati nell’analisi e soluzione di questioni relative all’interpretazione ed applicazione del nuovo diritto del terzo settore. Essa costituisce infatti un contributo rilevante alla corretta interpretazione del codice del Terzo settore, chiarendo che la distinzione tra attività di interesse generale e attività diverse deve basarsi su criteri oggettivi legati al contenuto dell’attività stessa, e non esclusivamente sulle modalità di esecuzione o sulla finalità lucrativa. Tale chiarimento, oltre a ridurre le incertezze interpretative, consente agli operatori del Terzo settore di orientarsi con maggiore sicurezza nella predisposizione degli statuti e nella pianificazione delle attività, contribuendo a una più efficace e coerente applicazione della normativa di riferimento.